venerdì 21 ottobre 2011

Imago mortis

La storia dell'Uomo è anche fuga dalla morte. Non dalla sua rappresentazione. Fino all'età moderna il momento del trapasso è parte "viva" del quotidiano (sull'argomento Philippe Aries, "Storia della morte: dal medioevo ai nostri giorni").

Prima la rivoluzione industriale e poi - più decisamente - lo sviluppo economico e il benessere del secondo dopo guerra hanno relegato il dolore e la violenza in una sfera privata e progressivamente assenti dalla rappresentazione pubblica. Ad eccezione dei media di massa, gli unici veicoli istituzionalmente legittimati a dare forma visiva al dolore. Un palcoscenico mediato e per questo lontano
La diffusione dei mezzi di produzione e di distribuzione digitale in parte hanno riportato l'evento morte - nelle sfaccettature comprese fra violenza e dolore - su un palcoscenico più vicino, quasi a riallacciare un rapporto con la società pre-industriale. Seppure nella volgarità dell'eccesso e nella ferocia dell'apparire,

Le immagini di violenza - come l'esecuzione di Gheddafi - o di catastrofi - nel caso del maremoto in Giappone - prodotte in modo non professionale, sotto la pressione delle emozioni, poi diffuse, sventrate e commentate, hanno il merito di metterci di fronte - in modo diretto - ad aspetti della vita che che avevamo posto tra i confini dei set cinematografici.

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