mercoledì 27 giugno 2012

Giornalismo del dubbio

Il dibattito sullo stato dell’editoria e dell’informazione, soprattutto grazie a preziosi post di Pierluca (Il Giornalaio, qui e qui), continua a offrire spunti per comprendere la complessità del nuovo pubblico, sospeso tra le piattaforme digitali e il legame appiccicoso ai media tradizionali. Un punto di partenza – tendenzialmente poco considerato – per creare strategie che possano aspirare alla sostenibilità economica.
I passaggi che invito a leggere (o a rileggere per chi non l’avesse ancora fatto) sono: l’articolo pubblicato sul sito della fondazione ahref (Come evolve il concetto di qualità nell’informazione), Giuseppe Granieri (Le tendenze che stanno ridisegnando il giornalismo) e Pierluca Santoro (La massa intelligente funziona e Rapporto 2012 sull’industria dei quotidiani).
Il recinto dentro il quale ha preso forma la discussione si è fissato – sinteticamente – lungo tre assi: la necessità di re-inventare i contenuti di qualità, il formarsi di una nuova professionalità (dell’editore e del giornalista/autore), l’individuazione di un pubblico (con alta propensione alla spesa o in grado di attrarre investimenti pubblicitari) e, per l’Italia, lo stato dell’informazione (diffusione, readership, audience, pagine viste).

I confini, così tracciati, sono variabili, adattabili e modificabili in funzione delle definizioni di partenza (cos'è la qualità? Chi sono i lettori di un giornale? Quanto pesa la diffusione?), condizione che, peraltro, anziché generare ulteriore confusione, potenzialmente apre il campo all'intuizione, spesso decisiva nelle scelte industriali.
I numeri, il consumo delle notizie, così diverso rispetto a soli pochi anni fa, seppure aumentato nell’intensità, obbligano, dunque, a un ripensamento. Che deve partire dalle risposte alle seguenti domande.

1) In Italia esiste un mercato per il giornalismo di qualità? Questione fondamentale. Alzare o abbassare il livello qualitativo di una testata, di un sito, di un magazine varia a seconda delle risposta. Se si prendono per buoni i dati sul crescente analfabetismo di ritorno e sulla forbice allargata tra utenti online e quelli sui siti dei quotidiani (come emerge dal Rapporto 2012 della Fieg), si potrebbe dire che nel nostro paese non c’è un mercato editoriale di quel tipo. O meglio, la capacità produttiva (seppure inespressa, in parte) supera, notevolmente, la domanda. L’infobesità, che è poi infotainment, prende direttamente origine da un panorama caratterizzato da una debole densità culturale.

2) La ricerca di una massa intelligente (sull’esempio dell’Economist, qui) è un percorso realizzabile per un editore italiano? La rivista inglese, oltre a offrire prodotti verticali, ha una distribuzione mondiale. Un’utenza di nicchia, ma quantitativamente notevole. Condizioni a cui si aggiunge l’accurato lavoro sui piani delle convergenza editoriale e dello sviluppo tecnologico. L’orizzonte peninsulare è decisamente più stretto e una massa intelligente è individuabile solo come somma delle utenze suddivise tra testate e diverse piattaforme. Esistono nicchie in grado di generare ricavi e ci sono editori verticali che si stanno muovendo con abilità, ma le potenzialità di crescita sono oggettivamente limitate. Il lavoro “intelligente” per costruire la massa “intelligente” italiana non può che passare attraverso la costruzione di network editoriali. Collaborazioni, almeno sul piano dell’offerta, per formare un pubblico meno dipendente dalle mosse (e dai profitti) dei player che non producono contenuti.

3) Quale sarà il futuro per la professione giornalistica? Già in altre occasioni ho affermato che la transazione non aprirà – almeno nel breve medio periodo – le porte a un’età dell’oro. C’è un’indubbia dose di mistificazione – e tanto ottimismo -, quando si sostiene che questo è il periodo migliore per fare il giornalista (salvo che non lo si consideri come un secondo lavoro o un hobby). La realtà sarà segnata da profonde ristrutturazioni industriali e personali (nel senso delle modalità di lavoro e delle conoscenze necessarie). Un segnale evidente - in corso da tempo - è la disgregazione dell’ordine giuridico. Redattori, editor, autori sono per la maggioranza inquadrati in contratti estranei a quello che fanno: dalle telecomunicazioni, ai grafici-editoriali, fino al commercio. E’ un adattamento economico che sta esautorando l’Ordine e il relativo contratto. Finale già scritto – ma non si dice –: ci sarà un pacchetto di norme e di regole in fase con la filiera industriale e con le sue capacità di generare profitto. Condizione quest’ultima – fatti salvi i diritti fondamentali di libertà d’espressione – preferibile all'attuale diffusa ipocrisia, dove gli inclusi – sotto contratto, ma spesso lontani dal cambiamento digitale – sono opposti agli esclusi, tendenzialmente preparati, malpagati, scarsamente tutelati.

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